Nel tredicesimo canto dell’Iliade, Teti entra nella fucina di Efesto, in una grotta sottomarina, e trova il fabbro divino intento a forgiare venti tripodi che siano in grado di muoversi da soli per portare le vivande agli dèi riuniti in assemblea e poi tornarsene al loro posto. Durante la fabbricazione di questi gioielli di tecnomagia, Efesto è assistito da ancelle dorate, anch’esse di sua creazione: oggi qualcuno le chiamerebbe ginoidi, corrispettivo femminile del più noto androidi. La produzione di Efesto comprende anche i due cani immortali di guardia al palazzo di Alcinoo, uno d’oro e uno d’argento, un cane dorato regalato dal dio al giovane Zeus, un leone artificiale, e quattro furiosi, indomabili tori di bronzo che soffiano fuoco.
È proprio in questo contesto che nasce il termine greco automaton, dal quale derivano, in italiano, il sostantivo automa e l’aggettivo automatico. Etimologicamente automaton rimanda a qualcosa «che pensa da sé», anche se oggi automa designa più che altro qualcosa «che si muove da sé». In ogni caso Omero ci dice che le ancelle dorate di Efesto possiedono mente, voce e forza. Come i robot moderni, gli automi omerici sono creati per svolgere funzioni di assistenza e difesa. Ma sono robot? Hanno al loro interno organi meccanici o sono semplici sculture metalliche nelle quali il dio ha infuso un soffio vitale?
Il poeta sembra alludere alla seconda ipotesi e il discorso potrebbe chiudersi qui se non ci fosse Talos. Apollonio Rodio (III secolo avanti Cristo) ne parla nel quarto libro delle Argonautiche: Talos è il difensore di Creta ed è un uomo di bronzo, cioè appartiene a una stirpe specifica della mitologia greca, giganti metallici ossessionati dalla guerra che sarebbero nati cadendo dai frassini come frutti maturi.

Talos, dracma cretese, III a.C., Cabinet des Médailles, Parigi. Foto di Jastrow, pubblico dominio via Wikimedia Commons

Talos, dracma cretese, III a.C.
Foto di Jastrow

Dunque Talos sembrerebbe l’ennesima creatura magica, se non fosse che Apollonio fa menzione di una vena che attraversa il suo corpo e nella quale scorre un liquido simile a piombo fuso. Questa vena partirebbe dalla caviglia, dove è addirittura accessibile da un foro protetto da una membrana. Quattro secoli dopo Apollonio, l’autore della Biblioteca, un trattato di mitografia, parlerà non di una membrana ma di un chiodo, o una borchia, e riporterà anche una tradizione più antica – attestata da Platone – secondo la quale Talos sarebbe una creatura di Efesto.
Cos’è cambiato dai tempi delle creature magiche di Omero ai tempi di Apollonio? Probabilmente il fatto che si sta affermando la meccanica come scienza: la struttura della vena di Talos ricorda tanto quella di alcuni automi descritti dai trattati degli ingegneri alessandrini attivi almeno dal III secolo avanti Cristo, gente che si divertiva a progettare teatri semoventi, fontanelle animate e anche, appunto, statue antropomorfe che eseguivano movimenti grazie a meccanismi interni basati su contrappesi e su aria e liquidi compressi. Talos, dunque, inizia davvero a somigliare a un robot gigante e, come alcuni colleghi giapponesi contemporanei, aveva persino una specie di colpo finale: si rotolava nel fuoco fino ad arroventarsi per poi stringersi il nemico al petto.
Il Medioevo arabo ed europeo prenderà seriamente la via degli automi con l’orologeria, mentre ci lascerà oscuri rimandi a esperimenti di cui non è rimasta traccia né trattato, frammenti di cronaca mista a leggenda che raccontano ora della testa metallica parlante di papa Silvestro II, ora dell’androide di Alberto Magno, ora della mosca di ferro di Regiomontano, che si solleva svolazzando dalle sue mani, oppure della sua aquila di legno, che copre chilometri come un drone. Le notizie sono un po’ confuse ma l’idea che ci si fa – complici i martellatori di campane che corrono sui binari delle cattedrali – è che alla fine del Medioevo la versione dell’umano artificiale a base di lamiere, viti e bulloni si stia ormai fissando nell’immaginario collettivo.

Creazione dell'homunculus, secolo XIX, pubblico dominio via Wikimedia Commons

Creazione dell’homunculus, secolo XIX

Non è esattamente così. Nella letteratura alchemica così come nell’esoterismo ebraico esiste un’altra potente suggestione: ripetere l’esperienza divina della genesi. In questi ambienti si pensa piuttosto in termini di fluidi, materie plasmabili, sublimazioni: passando per le frasi oscure del persiano Jabir ibn Hayyan (VIII secolo) sulla possibilità di imitare la creazione, e per la leggenda del Golem, il gigante d’argilla difensore del ghetto ebraico di Praga, si arriva nel Cinquecento all’homunculus di Paracelso, ottenuto da liquidi organici (ma è tutto amor di descrizione: Paracelso ci assicura che mai e poi mai si sognerebbe di imitare il Padre eterno, figuriamoci) e la variante elementale o biologica della creatura artificiale arriva fino all’Ottocento con il Faust di Goethe e il dottor Frankenstein di Mary Shelley.

La ginoide di Metropolis, 1927. Foto di Jiuguang Wang, CC BY-SA 2.0 via Wikimedia Commons

La ginoide di Metropolis, 1927.
Foto di Jiuguang Wang, particolare

Nel frattempo, però, la meccanica ha fatto il suo corso sul granitico versante della realtà – il Settecento è stato il secolo dei veri automi reali creati da Vaucanson e Jaquet-Droz – e infine il sogno tecnologico trionfa anche nella fiction: nel 1886, Villiers de L’Isle-Adam inventa l’andréide meccanica del suo romanzo Eva Futura, e a marchiare a fuoco l’immaginario condiviso sarà Fritz Lang nel 1927: da Metropolis in poi, il robot sarà quel costrutto metallico che tutti ci figuriamo quando sentiamo dire «robot».
A proposito: la parola ceca robot rimanda all’idea di lavoro e servitù, e definisce androidi e ginoidi dal 1920, cioè da sette anni prima di Metropolis. Il primo a usarla in questa accezione è lo scrittore di fantascienza Karel Čapek nella sua opera teatrale R.U.R. Rossum’s Universal Robots, ovvero I robot universali di Rossum. Il paradosso è che i robot di Čapek, diversamente dai robot del nostro immaginario, sono organici, sono creature ottenute da un protoplasma chimico, per natura molto più simili all’homunculus di Paracelso e ai replicanti di Blade Runner che al gigante bronzeo Talos e alla ginoide di Metropolis.

Bibliografia:
Monica Pugliara, Il mirabile e l’artificio. Creature animate e semoventi nel mito e nella tecnica degli antichi, L’Erma di Bretschneider 2003
Silvia Milani, Universal Robots. La civiltà delle macchine, Delos 2015
Serena Zonca, Robot, androidi e cyborg. Dal mito alla fantascienza, autoproduzione 2015
Immagine di copertina: Vulcano, 1677, acquaforte di Cornelis Bloemaert da un originale di Pietro da Cortona. Tratta da Wellcome Collection, CC-BY-4.0

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