L’isola è una figura talmente radicata nel nostro mondo simbolico che sarebbe impossibile elencarne tutte le apparizioni e le declinazioni anche solo nella cultura occidentale: l’isola del tesoro dei pirati, l’Isola che non c’è di Peter Pan, l’isola del naufragio di Robinson Crusoe e quella del Signore delle mosche, le Galapagos di Darwin, l’isola di Lost, l’isola dei famosi: l’isola attraversa il nostro mondo psichico da sempre, dal profondo alla superficie, esercitando su di noi un carisma pressoché irresistibile, perché tende a sintetizzare gli opposti, mescolando desiderio e sgomento, senso di protezione e senso di allarme.

Island, foto di Bill Green. CC BY-NC 2.0 via Flickr

Island, foto di Bill Green

Da un lato, infatti, anche per via di un’immaginazione piuttosto selettiva, l’isola evoca paradisi lussureggianti – non del tutto scevri di qualche suggestione colonialista: pensiamo a cosa è stato per gli occidentali l’immaginario delle Hawaii intorno alla metà del Novecento. Dall’altro lato instilla il senso di isolamento e a volte una sgradevole sensazione di precarietà, visto che la stragrande maggioranza del genere umano vive sulle placche principali dei continenti e che l’isola può sparire, come gli isolotti vulcanici, come i continenti sommersi; una volta che vi si sia approdati, l’isola può improvvisamente mostrarsi come un luogo non adatto agli esseri umani, non fatto per loro.
Eppure, proprio perché è la meno umana (nessun uomo è un’isola, recitava la poesia di John Donne), la più aliena delle terre, l’isola è appartata, incontaminata, è il rifugio ideale ogni volta che il mondo attorno a noi ci sembra sovraffollato o inquietantemente artificiale. Va anche detto che la fascinazione per l’isola ha molto, moltissimo a che vedere con la libertà di abbandonarla; in caso contrario diventa una prigione – l’isola del naufragio, l’isola di Alcatraz, l’isola di Sant’Elena per Napoleone – tuttavia la libertà di abbandonarla, di solito, va di pari passo alla libertà da parte degli altri di raggiungerla, e ciò la rende un po’ meno isola.
Rispetto a qualsiasi altro pezzo di terra, l’isola sa essere paradiso e prigione in modi estremi, e la chiave del suo successo archetipico sembra stare precisamente in questa ambivalenza: a volte trovarsi fuori dai confini del mondo è esaltante, altre volte è una galera, quasi sempre è spaesante, perché, tra i due estremi della libertà assoluta e dell’assoluta reclusione, non si sa bene come sentirsi.

Coast of wavy sea, foto di Lachlan Ross. Via Pexels

Coast of wavy sea, foto di Lachlan Ross

Del resto, la sua separazione dal continente la rende il luogo ideale per gli esperimenti, sia quelli evolutivi a opera della natura, sia quelli politici condotti dagli esseri umani (ma anche gli esperimenti più o meno evolutivi condotti dagli esseri umani, come nel fantascientifico L’isola del Dottor Moreau di H.G. Wells). Dopotutto l’esperimento è quella situazione in cui si escludono le condizioni di interferenza in modo da isolare (di nuovo) un preciso processo che si vuole comprendere. Non a caso, i filosofi che compiono esperimenti mentali sull’utopia scelgono l’isola come ambiente ideale. Tra il Cinquecento e il Seicento – era di grandi navigazioni – lo fanno Tommaso Moro, Francesco Bacone e Tommaso Campanella: nelle loro opere sviluppano società ideali su isole immaginarie che salvaguardano i loro abitanti dalle inquinanti concezioni continentali e soprattutto dall’intrusione di gentaglia poco illuminata; l’attenzione di Bacone alla regolamentazione delle entrate e delle uscite dalla sua Bensalem è rigorosissima.
Poi, nel Settecento, in corrispondenza con la pubblicazione del Robinson Crusoe, c’è un cambio di prospettiva: dall’utopia insulare come libertà di edificare una nuova civiltà che possa essere all’avanguardia politica e tecnologica, lo scenario dell’isola si rovescia nel suo contrario. La nuova utopia è fuggire dalla civiltà in sé, trovare nell’isola un luogo di solitudine e di armonia con la natura. Sull’isola si può rinascere, lasciarsi alle spalle la vecchia vita o anche solo redimersi, ma gli scrittori illuministi la useranno soprattutto come laboratorio letterario per ripercorrere, attraverso le gesta del naufrago, le tappe del percorso evolutivo dell’essere umano.
Il tema utopico fa presto a diventare distopico. I viaggi di Gulliver (1726) di Jonathan Swift è la perfetta parodia della letteratura utopica. Il protagonista non trova un’isola nella quale possa integrarsi: gli abitanti sono sempre strani, o mostruosi, o pericolosi, o, infine, troppo superiori agli umani, tanto da cacciarlo, e quando alla fine torna in Inghilterra, Gulliver non riesce a stare vicino più a nessuno.
A proposito di utopie che si rovesciano, nella seconda metà del Novecento, mentre passeggiavamo sovrappensiero tra immaginari di palme e spiagge, dai nostri gesti quotidiani irriflessi si sono materializzate distopie insulari reali: le garbage island, isole dei rifiuti, o isole della plastica. La più grande si trova nel Pacifico, le sue dimensioni non sono certe, ma le stime vanno da un’ampiezza paragonabile a quella della penisola iberica a una paragonabile a quella degli USA. Utopisti del Cinquecento, scansatevi.

Splashing wave on rock, foto di Sebastian Voortman. Via Pexels

Splashing wave on rock, foto di Sebastian Voortman

Bibliografia
AAVV, Il fascino inquieto dell’utopia. Percorsi storici e letterari in onore di Marialuisa Bignami, Ledizioni 2014
Daniel Defoe, Robinson Crusoe, Newton Compton 2016
Jonathan Swift, I viaggi di Gulliver, Newton Compton 2015
Thomas More, Utopia, Feltrinelli 2016
Francis Bacon, Nuova Atlantide, BUR 2009
Tommaso Campanella, La città del sole, Feltrinelli 2014
Immagine in copertina: foto aerea di Pok Rie via Pexels

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