C’era soltanto un problema, nella sua vita, e aveva la forma di una ragazza magrolina, con i capelli a caschetto, che lavorava come psicologa al centro di selezioni di Houston. La donna era italiana. L’uomo sapeva dare un nome a quello che provava quando se ne stava di fronte a lei, perché era simile a ciò che provava per il cielo, il sentimento di esserne stato strappato. I primi giorni si spiarono a distanza, lui guardava come saliva il camice bianco sopra il polpaccio calzato di nero ogni volta che lei si girava, e lei si concentrava sul movimento leggero di quelle mani nodose sui fogli di carta, come un mostro gigantesco ma pieno di grazia. Forse era proprio questo, l’amore. La grazia pura al centro esatto di qualcosa di orribile. Col tempo cominciarono a sciogliersi. Lui si fece spiegare la differenza sostanziale tra un astronomo e un astronauta (non era il cielo, la chiave di volta, ma la stessa differenza che c’è tra magia e tecnica, l’intenzione che attraversa il pensiero e l’azione), e lei accettò schernendosi un mazzo di fiori sgualcito. Si baciarono per la prima volta ai tavolini di un locale di una cittadina vicino Washington, dove pensavano di non poter essere visti. Le relazioni sentimentali tra colleghi erano osteggiate, soprattutto in prossimità di una missione, e poi la donna aveva già un marito. Fecero l’amore una sola volta, dentro la base, con la voglia nelle mani di rompere le chiusure lampo e i bottoni. Ma subito dopo Stefano divenne cupo, solitario, quasi triste. Sapeva che un astronauta prima di tutto ha un debito con il cielo.
Arrivò il giorno del lancio dello Shuttle. Stefano passò in missione quarantatré giorni. Dagli oblò rinforzati osservava il pianeta Terra come se quello spettacolo non lo riguardasse più. Allora cominciò a guardare oltre, verso lo spazio nero, cercando la fine di quell’universo impossibile da immaginare. Ma fu durante la sua ultima passeggiata spaziale, quando vide qualcosa muoversi alle sue spalle, che capì il significato del proprio viaggio. I raggi del Sole, non schermati dall’atmosfera terrestre, lo colpirono. Riusciva a sentirli sulla pelle, attraversavano la tuta schermata e arrivavano a sfrigolare sull’epidermide, riempiendogli la carne. Vide la sua ombra proiettata sul metallo cangiante dello Shuttle, mentre continuavano a volare sopra la Terra. Il casco rimbombava dei suoi respiri, e il suono veniva interrotto soltanto dalle brevi comunicazioni radio e dalla polvere cosmica contro lo scafo dell’astronave, come in macchina le gocce d’acqua in un giorno di pioggia col Sole. In quel momento diverse aurore boreali apparvero incredibili vicino al Polo, colorando di verde la curvatura terrestre, come una pellicola magica che avvolgeva il globo. La Terra dalla Stazione Spaziale Internazionale, 2014. Foto di NASA/Samantha Cristoforetti, pubblico dominio via Wikimedia CommonsStefano guardò il pianeta e si accorse in quel momento di quanto fosse vivo tutto quello che vedeva. È una cosa che capisci solo quando sei lassù. Ma, si chiese, se il pianeta che aveva davanti viveva una vita totale, completamente diversa e più misteriosa di quella che siamo abituati a percepire mentre ci camminiamo sopra, che cosa si poteva dire di ciò a cui dava le spalle? Per un attimo si voltò a guardare l’abisso del buio cosmico, e anche lì percepì, manifesta e viscosa, la presenza della vita. Fu allora che udì una voce. Sembrava una donna che gli parlava con parole incomprensibili, una specie di canto. Una musica celeste arrivò a riempirgli il casco. Non aveva mai sentito prima qualcosa di tanto commovente e assoluto. Quella sinfonia gli parlava di cose che non aveva mai visto, di posti in cui non era mai stato, eppure gli raccontava di un luogo che era casa. Guardò intorno a sé le stelle che vibravano da milioni di anni, sempre in circolo attorno al centro delle proprie galassie, e d’un tratto capì. Tutto faceva parte di un corpo, tanto grande da non potere nemmeno essere immaginato. Ogni divinità, ogni preghiera, ogni candela accesa in ogni tempio della Terra dietro di lui alludeva a quel cielo enorme. L’astronauta pianse di gioia, quando capì che il tempo, fuori dal cosmo, non era che un difetto.
La voce gli mostrò davanti agli occhi vite di persone che si erano amate, e come i pianeti lentamente si aggreghino intorno alla propria stella, e i vortici oscuri che sono il confine di ogni buco nero. L’astronauta sentì che quella musica lo chiamava a sé, chiedendogli l’abbandono totale. Quel suono riempiva di senso la sua anima più di qualsiasi altra cosa. Riconsiderò brevemente le poche cose che era. I suoi genitori, una strada assolata di Roma, una fontana che bagna il selciato e gli occhi di una donna di qualcun altro. Il suo cuore tremava, perché sapeva che non sarebbe stato più felice di così e, mentre l’enorme montagna di metallo, combustibile e idrogeno che componeva lo Shuttle lo teneva ancorato all’uomo che era stato, decise una volta per tutte che no, niente di tutto ciò aveva senso, se non poteva essere condiviso con la donna che amava. Puntando le stelle, avvertì la sua anima frantumarsi in migliaia di particelle diverse. In quel momento sentì che non c’era cosa più grande di quell’amore. Che tutta la conoscenza dell’universo impallidiva di fronte a una cosa fragile e piccola, eppure assoluta, come quella. La voce del Sole non era preziosa come l’anima della donna che amava.

Estratto da: Matteo Trevisani, Il libro del sole, Edizioni Atlantide, 2019
Immagine di copertina: Astronaut in Space. NASA

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