L’ultimo giorno di quel periodo è anche l’unico che io riesca a ricordare. Camminavo sul prato sotto la collina e la luce sulle cose sembrava strana, era come se i fili d’erba, le cortecce degli alberi e il cielo stesso con le sue nuvole avessero cambiato impercettibilmente colore, sembravano più sbiaditi e insieme più vividi, come quando l’estate si avvia a terminare. Ricordo che mi sorpresi a raccogliere le piante e la frutta per il pranzo, come per istinto, anche se non avevamo deciso che dovessi farlo io.
Quando tornai, lui era seduto sul tronco del giardino davanti a casa.
«Ho finito di dare i nomi», disse, «oggi. Guarda quello, si chiama animale, poi cane, poi Mesa».
«Capisco», dissi. Quello che voleva dire era chiaro, ciò che mi stupiva era piuttosto la naturalezza con cui si produceva in me questo scarto che, lo sentivo, mi stava anche tagliando in due. Tutt’ora non fa che tagliarmi in due e tagliare in due quel poco che ricordo di ciò che precede quel pranzo, la mattina trascorsa a raccogliere frutti nei colori straniti del prato. Mentre mi taglia, mi permette di afferrare le parole delle cose.
Il sole all’ora di pranzo splendeva alto nel cielo e le nuvole se ne erano andate chissà dove, in luoghi in cui non eravamo mai stati ma che ora avevano un nome. Mangiammo in giardino, seduti sui tronchi. Afferrai un frutto giallo e rosso con striature verdi, prima mi fermai a guardare quei suoi colori resi così anomali dalla luce di quel giorno, poi lo addentai. Pensai che aveva un sapore strano, non cattivo, no, assolutamente, però strano, inconsueto.
«Sentilo un po’», dissi.
«Non mi va», disse lui.
«Prova, devo capire se è strano», e mentre glielo passavo mi resi conto che non conoscevo il nome di quel frutto.
Lo addentò anche lui.
«Sì, è strano», disse, «ma poi che cos’è?»
«Vuoi dire che non lo hai nominato?»
«In che senso?»
«Hai detto che hai dato un nome a tutto. Non lo hai dato anche a questo frutto?»
«Le cose hanno già un nome, altrimenti come potremmo parlare? come avremmo potuto parlare finora?»
«Ma tu hai detto…», mi fermai a pensare di nuovo alle sue parole, all’improvviso non ero sicura che le avesse mai pronunciate. Ricordavo la collina, il ritorno, il pranzo, il serpente. Ma il ricordo, il ricordo mi resi conto che era qualcosa di nuovo, qualcosa che fino a quel momento non avevo mai avuto.
«Cos’ho detto?», domandò, e poi, guardando spaesato il frutto tra le sue mani, «ma poi, questo, che roba è?»
Quella sera la notte giunse prima e faceva più freddo del solito. Ci prese come una malinconia mista a una smania senza nome, come quel frutto. Dormimmo poco e male e al mattino dopo parlammo di andarcene da lì. Sapevamo che non stavamo cercando nulla, non avremmo nemmeno saputo cosa cercare. Sapevamo che ciò che ci muoveva lo faceva da dentro di noi, non da fuori, e sapevamo che non potevamo farci niente.
"Foto

Estratto da: Ernesta María Palimbo, Después del Edén, Editorial Majacondo, 2019
Immagine di copertina: foto di Veeterzy via Pexels
Immagine nel testo: foto di PickupImage via Pixabay

Commenti

Utilizzando il sito, accetti l'utilizzo dei cookie. Privacy Policy

Questo sito utilizza i cookie per fornire la migliore esperienza di navigazione possibile. Continuando a utilizzare questo sito senza modificare le impostazioni dei cookie o cliccando su "Accetta" permetti il loro utilizzo.

Chiudi